Xenocrate
EpistemologiaModifica
Xenocrate fece una divisione più definita tra i tre dipartimenti della filosofia, rispetto a Speusippo, ma allo stesso tempo abbandonò il metodo euristico di Platone di condurre attraverso i dubbi (aporiai), e adottò invece un modo di presentare le sue dottrine in cui esse venivano sviluppate dogmaticamente.
Senocrate riconobbe tre gradi di cognizione, ciascuno appropriato a una regione propria: la conoscenza, la sensazione e l’opinione. Egli riferiva la conoscenza (episteme) a quell’essenza che è oggetto del puro pensiero e non è inclusa nel mondo fenomenico; la sensazione (aisthesis) a ciò che passa nel mondo dei fenomeni; l’opinione (doxa) a quell’essenza che è allo stesso tempo oggetto della percezione sensuale e, matematicamente, della pura ragione – l’essenza del cielo o delle stelle; così che egli concepì la doxa in un senso superiore, e cercò, più decisamente di Platone, di mostrare la matematica come mediatrice tra la conoscenza e la percezione sensuale. Tutti e tre i modi di apprensione partecipano della verità; ma in che modo la percezione scientifica (epistemonike aisthesis) lo facesse, purtroppo non lo sappiamo. Anche qui appare la preferenza di Xenocrate per i modi simbolici di sensualizzare o denotare: egli collegava i tre stadi di conoscenza di cui sopra con le tre Parche: Atropos, Clotho e Lachesis. Non sappiamo altro sul modo in cui Xenocrate svolse la sua dialettica, poiché è probabile che ciò che era peculiare della logica aristotelica non rimase inosservato in essa, poiché non si può dubitare che la divisione dell’esistente nell’assolutamente esistente e nel relativamente esistente, attribuita a Xenocrate, fosse opposta alla tavola aristotelica delle categorie.
MetafisicaModifica
Sappiamo da Plutarco che Xenocrate, se non ha spiegato la costruzione platonica del mondo-anima come fece Crante dopo di lui, ha tuttavia attinto a piene mani al Timeo; e inoltre che egli era a capo di coloro che, considerando l’universo come non originato e imperituro, consideravano la successione cronologica nella teoria platonica come una forma in cui indicare i rapporti di successione concettuale. Plutarco, purtroppo, non ci fornisce ulteriori dettagli, e si accontenta di descrivere il noto assunto di Senochrate, che l’anima è un numero che si muove da solo. Probabilmente dovremmo collegare con questo l’affermazione che Xenocrate chiamava divinità l’unità e la dualità (monas e duas), e caratterizzava la prima come la prima esistenza maschile, che governa in cielo, come padre e Zeus, come numero impari e spirito; la seconda come femminile, come madre degli dei, e come anima dell’universo che regna sul mondo mutevole sotto il cielo, o, come altri dicono, che nominò lo Zeus che rimane sempre come lui, governando nella sfera dell’immutabile, il più alto; quello che governa sul mondo mutevole, sublunare, l’ultimo, o più esterno.
Se, come altri platonici, egli designò il principio materiale come dualità indefinita, l’anima-mondo fu probabilmente da lui descritta come la prima dualità definita, il principio condizionante o definitorio di ogni separata definizione nella sfera del materiale e mutevole, ma che non si estende oltre. Sembra che l’abbia chiamata nel senso più alto l’anima individuale, in un senso derivato un numero che si muove da solo, cioè il primo numero dotato di movimento. A questa anima-mondo Zeus, o spirito del mondo, ha affidato – in che grado e in che misura, non lo sappiamo – il dominio su ciò che è suscettibile di movimento e di cambiamento. Il potere divino dell’anima-mondo è poi di nuovo rappresentato, nelle diverse sfere dell’universo, come infondendo l’anima nei pianeti, nel Sole e nella Luna, – in una forma più pura, nella forma degli dei olimpici. Come potenza demoniaca sublunare (come Era, Poseidone, Demetra), essa abita negli elementi, e queste nature demoniache, a metà strada tra gli dei e gli uomini, sono legate ad essi come il triangolo isoscele lo è all’equilatero e allo scaleno. L’anima-mondo divina che regna su tutto il dominio dei cambiamenti sublunari sembra aver designato come l’ultimo Zeus, l’ultima attività divina.
E’ solo quando si arriva alla sfera delle potenze demoniache separate della natura che comincia l’opposizione tra il bene e il male, e la potenza demoniaca si placa per mezzo di una testardaggine che vi trova congeniale; la potenza demoniaca buona rende felici coloro in cui prende dimora, quella cattiva li rovina; poiché l’eudaimonia è la dimora di un demone buono, il contrario la dimora di uno cattivo.
Come Xenocrate abbia cercato di stabilire e collegare scientificamente questi presupposti, che sembrano essere tratti principalmente dai suoi libri sulla natura degli dei, non lo sappiamo, e possiamo solo scoprire l’unica idea fondamentale alla base di essi, che tutti i gradi dell’esistenza sono penetrati dalla potenza divina, e che questa diventa sempre meno energica in proporzione alla sua discesa verso il deperibile e l’individuale. Perciò sembra anche aver sostenuto che fino a dove si estende la coscienza, si estende anche l’intuizione di quella potenza divina onnipotente, di cui egli rappresentava anche gli animali irrazionali come partecipi. Ma né il denso né il sottile, alle diverse combinazioni di cui sembra aver cercato di riferire i vari gradi dell’esistenza materiale, erano da lui considerati come di per sé partecipi dell’anima; senza dubbio perché li riferiva immediatamente all’attività divina, ed era lontano dal tentare di conciliare la dualità dei principia, o di risolverli in una unità originale. Quindi era anche per dimostrare l’incorporeità dell’anima per il fatto che non si nutre come il corpo.
È probabile che, sull’esempio di Platone, abbia designato il principium divino come solo indivisibile, e rimanendo come se stesso; la materia, come il divisibile, che partecipa della multiformità, e diverso, e che dall’unione dei due, o dalla limitazione dell’illimitato da parte dell’unità assoluta, abbia dedotto il numero, e per questo abbia chiamato l’anima dell’universo, come quella degli esseri individuali, un numero che si muove da solo, che, in virtù della sua duplice radice nel medesimo e nel diverso, partecipa ugualmente alla permanenza e al movimento, e raggiunge la coscienza per mezzo della conciliazione di questa opposizione.
Aristotele, nella sua Metafisica, riconobbe tra i platonici contemporanei tre opinioni principali riguardanti i numeri ideali, e la loro relazione con le idee e i numeri matematici:
- quelli che, come Platone, distinguevano i numeri ideali da quelli matematici;
- quelli che, come Xenocrate, identificavano i numeri ideali con i numeri matematici
- quelli che, come Speusippo, postulavano solo i numeri matematici
Aristotele ha molto da dire contro l’interpretazione xenocratea della teoria, e in particolare fa notare che, se i numeri ideali sono costituiti da unità aritmetiche, non solo cessano di essere principi, ma diventano anche soggetti a operazioni aritmetiche.
Nella derivazione delle cose secondo la serie dei numeri sembra essere andato più lontano di qualsiasi suo predecessore. Si avvicinò ai pitagorici in questo, che (come è chiaro dalla sua spiegazione dell’anima) considerava il numero come il principio condizionante della coscienza, e di conseguenza anche della conoscenza; ritenne però necessario fornire ciò che mancava all’assunto pitagorico con la definizione più precisa, presa in prestito da Platone, che è anima solo nella misura in cui il numero concilia l’opposizione tra lo stesso e il diverso, e si è elevato al moto di sé. Troviamo un simile tentativo di integrazione della dottrina platonica nell’assunzione di Xenocrate delle linee indivisibili. In esse egli pensava di aver scoperto ciò che, secondo Platone, solo Dio conosce, e lui tra gli uomini che è amato da lui, cioè gli elementi o principia dei triangoli platonici. Sembra che li abbia descritti come linee prime, originarie, e in un senso simile abbia parlato di figure e corpi semplici originari, convinto che i principia dell’esistente debbano essere cercati non nel materiale, non nel divisibile che raggiunge la condizione di fenomeno, ma solo nella definizione ideale della forma. Egli può benissimo, in accordo con questo, aver considerato il punto come un presupposto meramente soggettivo ammissibile, e un passo di Aristotele relativo a questo presupposto dovrebbe forse essere riferito a lui.
EticaModifica
Le informazioni sulla sua Etica sono scarse. Egli cercò di completare la dottrina platonica in vari punti, e allo stesso tempo di darle un’applicabilità più diretta alla vita. Distingueva dal bene e dal male qualcosa che non è né buono né cattivo. Seguendo le idee dei suoi predecessori accademici, considerò il bene come ciò che deve essere ricercato per se stesso, cioè, che ha valore in se stesso, mentre il male è l’opposto di questo. Di conseguenza, ciò che non è né buono né cattivo è ciò che di per sé non è né da ricercare né da evitare, ma ha valore o l’opposto a seconda che serva come mezzo per ciò che è buono o cattivo, o meglio, sia usato da noi a tale scopo.
Mentre, però, Xenocrate (e con lui Speusippo e gli altri filosofi dell’Accademia più antica) non accettava che queste cose intermedie, come la salute, la bellezza, la fama, la buona fortuna, ecc. avessero valore in sé, non accettava che fossero assolutamente senza valore o indifferenti. Secondo, quindi, come ciò che appartiene alla regione intermedia è adatto a realizzare o ad ostacolare il bene, Xenocrate sembra averlo designato come buono o cattivo, probabilmente con la riserva, che con l’abuso ciò che è buono potrebbe diventare cattivo, e viceversa, che con la virtù, ciò che è cattivo potrebbe diventare buono.
Ancora egli sosteneva che solo la virtù ha valore in sé, e che il valore di ogni altra cosa è condizionato. Secondo questo, la felicità dovrebbe coincidere con la coscienza della virtù, anche se il suo riferimento ai rapporti della vita umana richiede la condizione aggiuntiva, che è solo nel godimento delle cose buone e delle circostanze originariamente progettate per essa dalla natura che essa raggiunge il completamento; a queste cose buone, tuttavia, non appartiene la gratificazione sensuale. In questo senso egli da un lato denotò la felicità (perfetta) come il possesso della virtù personale, e le capacità ad essa adeguate, e quindi annoverò tra i suoi elementi costitutivi, oltre alle azioni morali condizioni e facilità, anche quei movimenti e rapporti senza i quali non si possono raggiungere i beni esterni, e d’altra parte non ammetteva che la saggezza, intesa come scienza delle cause prime o dell’essenza intelligibile, o come comprensione teorica, fosse di per sé la vera saggezza che doveva essere ricercata dagli uomini, e quindi sembra aver considerato questa saggezza umana come esercitata allo stesso tempo nell’indagare, definire e applicare. Quanto decisamente egli abbia insistito non solo sul riconoscimento della natura incondizionata dell’eccellenza morale, ma sulla moralità del pensiero, è dimostrato dalla sua dichiarazione, che si arriva alla stessa cosa sia che uno getti occhi bramosi, sia che metta i piedi sulla proprietà degli altri. La sua serietà morale è anche espressa nell’avvertimento che le orecchie dei bambini dovrebbero essere protette dal veleno dei discorsi immorali.
MatematicaModifica
Xenocrate è noto per aver scritto un libro sui numeri e una teoria dei numeri, oltre a libri sulla geometria. Plutarco scrive che Xenocrate una volta tentò di trovare il numero totale di sillabe che potevano essere fatte dalle lettere dell’alfabeto. Secondo Plutarco, il risultato di Xenocrate fu 1.002.000.000.000 (una “miriade e venti volte una miriade di miriadi”). Questo probabilmente rappresenta il primo caso in cui è stato tentato un problema combinatorio che coinvolge le permutazioni. Xenocrate sostenne anche l’idea delle “linee indivisibili” (e delle grandezze) per contrastare i paradossi di Zenone.