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Perché leggere la letteratura nell’era digitale?

Se stai leggendo questo, allora la domanda “Perché leggere?” di fatto non ha senso – o almeno ha avuto una risposta soddisfacente sufficiente per questa occasione. Qualsiasi membro della famiglia delle torce sotto le coperte sa che se devi chiedere perché quando si tratta di leggere, allora hai perso il punto, o forse un intero gruppo di punti. Si legge perché si può, quando si può, qualunque cosa sia, contro le regole, a tarda notte, a scapito dei propri occhi, avidamente e tristemente e ridendo ad alta voce (e forse LOLing). Se non sei una di quelle persone, allora probabilmente non stai leggendo questo e le parole sono in perdita. Ci possono essere modi per raggiungere te, il non lettore, ma questo non è uno di quelli.

Tu ed io siamo uno. Queste parole, scritte a penna o di fatto digitate qualche tempo fa – una frase che mi sembra strano scrivere ora, gettandola nel futuro ottimistico del vostro momento di lettura – queste parole ci legano insieme, passato, futuro e presente, in una coscienza condivisa che entrambi troviamo in qualche modo utile. In un senso perfettamente sano, il fatto di leggere risponde alla domanda sullo scopo della lettura. Il perché diventa quello. Dall’altro lato, però, come sottolinea Mikita Brottman nel suo libro The Solitary Vice: Against Reading, abbiamo il fatto altrettanto paradossale che la lettura sembra aver bisogno di una costante promozione o boosterismo. Le reti radiofoniche trasmettono concorsi tra romanzi per incoraggiare la lettura. Ricchi benefattori sponsorizzano lucrosi premi di narrativa per incoraggiare la lettura. I libri di moda tra gli adolescenti come le serie di Harry Potter o Twilight, o tra gli adulti i romanzi di Stieg Larsson, sono pubblicizzati come buoni per la lettura, anche se i libri stessi sono cattivi – la premessa è, apparentemente, che i fantasy, i racconti di vampiri e i thriller violenti funzionano come droghe di passaggio verso gli alti più puri di Jane Austen o David Foster Wallace.

In fondo a tutti questi sforzi e giustificazioni ci sono le convinzioni gemelle che leggere fa bene, qualcosa da promuovere come il fitness o il non fumare; e che questo fatto in qualche modo taglia le nostre tendenze “naturali” a non leggere, proprio come mangiare patatine fritte e fumare Camel è più “naturale” che non perché entrambi gli atti sono cedimenti a tentazioni dannose. Il problema non è il moralismo – la vita è piena di moralismo – ma l’autocontraddizione. Se la lettura è così grande, divertente o edificante o interessante, perché ha bisogno di una promozione così aggressiva? Se i doni della vita di lettura sono così evidenti, perché hanno bisogno di essere difesi? Il paradosso uno incontra il paradosso due: se nel primo il perché diventa quello, qui il perché diventa perché lo diciamo noi. E questo non ha mai convinto nessuno, men che meno i bambini che lo capiscono di più.

Il che significa che chiunque consideri la domanda valida – una questione viva – o non sta prestando attenzione ai propri impegni letterari, che rendono la domanda autolesionista; o, più probabilmente, sta ponendo qualche altra domanda o domande, magari correlate.

Come: I libri sono utili nella loro forma attuale? Sono vitali? Redditizio? Gli stili di lettura online o e-book sono migliori, peggiori o semplicemente diversi dall’esperienza che associamo ai quattro secoli democratici di stampa su carta. Il codex, la forma a blocchi del libro, con le sue pagine rilegate e le copertine durevoli, sopravviverà? Sarà forse solo un mezzo artistico, un piacevole oggetto atavico simile alle macchine da scrivere steampunk o alla moda hippie vittoriana? C’è qualcosa di intrinsecamente significativo nella carta piegata e rifilata come hardware preferito per eseguire il software che chiamiamo alfabetizzazione? Ha ancora senso la nozione di “intrinsecamente significativo”? Ha mai avuto?

Le discussioni per rispondere a queste domande sono per lo più futili, nonostante il volume di stampa (e di “stampa”) che generano. Infatti, i dibattiti sono così noiosamente prevedibili che ora esiste un gioco di bevute basato sulla ripetizione di affermazioni familiari. Potremmo anche ammettere subito alcune delle principali controversie. L’esperienza di leggere un libro fisico è probabilmente superiore in termini puramente estetici, almeno per quelli di noi cresciuti con tali libri, alla lettura di un libro su Kindle o iPad. (Anche se un pensiero per quelli di noi le cui braccia si sono addormentate mentre sostenevano una copertina rigida a letto, con il libro che cadeva pesantemente su naso e bocca, minacciando il soffocamento). Non è più che giusto che gli scrittori ricevano dagli e-book almeno lo stesso compenso che ricevono dai libri cartacei, se non di più. Il modello economico dell’editoria, che per secoli è stato un misto di sconsiderato trend-chasing (imitare il bestseller dell’anno scorso) e magia nera (creare inconsapevolmente quello dell’anno prossimo), è gravemente difettoso e ha bisogno di una revisione. Ma anche se concedessimo tutto o parte di questo, non ci avvicineremmo al cuore della questione della lettura.

Perché? Perché il lasso di tempo necessario per risolverli è allo stesso tempo troppo lungo e troppo breve. Troppo lungo, perché le risposte, per quanto tali possano essere, si trovano al di fuori dell’arco mortale di chiunque sia vivo mentre scrivo queste parole; e troppo breve, perché le forze più grandi dell’esistenza umana turbinano in vortici più lunghi di decenni o addirittura secoli. Anche i dibattiti hanno un’aria di storia, se si presta attenzione alla storia in mezzo ai lanci delle riviste e alle polemiche su Twitter. Rimanendo entro i confini non solo del Canada ma del dipartimento di inglese dell’Università di Toronto, si potrebbe notare che nel 1962 Marshall McLuhan pubblicò The Gutenberg Galaxy, sostenendo che i caratteri mobili hanno cambiato il mondo ipnotizzando l’occhio a seguire migliaia di chilometri di parole stampate, mentre nel 1967 Northrop Frye avrebbe risposto con The Modern Century, castigando la visione di McLuhan come eccessivamente deterministica e cieca alla forza della volontà umana.

Il dibattito è irrisolvibile perché i termini sono fuori discussione. Non solo non conosciamo il futuro del libro, insomma: non possiamo saperlo. Come notava Kant già nella prefazione alla Critica della ragion pura, la coscienza umana può riflettere sulle proprie possibilità. È altrettanto vero che tale riflessione rivela, tra le altre cose, la nostra incapacità di comprendere la natura di tale coscienza. Possiamo, nel migliore dei casi, abbozzare i limiti di ciò che possiamo comprendere – parola a sua volta radicata nell’afferrare, circondare con la mano – e poi speculare su ciò che può, o deve, trovarsi oltre quei limiti.

Alcuni dibattiti sono bravi a portarci al limite, anche se (soprattutto se) non possono essere risolti lì. Se la domanda nuda e cruda “Perché leggere?” può essere risolta con la logica, o fatta scorrere tranquillamente nel paradosso, non è il caso della domanda sussidiaria “Perché continuare a leggere? – in particolare, perché continuare a leggere il tipo di cose che abbiamo letto in questi ultimi secoli. In una certa misura questa domanda vale indipendentemente dal veicolo di consegna, anche se il mezzo potrebbe essere solo parte del messaggio. La questione che vale la pena affrontare è questa: gli esseri umani stanno cambiando, se guadagnando o perdendo o entrambi ma cambiando, come cambiano le nostre abitudini di lettura?

Scrivere è un tipo di fare, nel senso più ampio di poesi, anche se implica un lavoro pesante solo di tipo concettuale o narrativo. Voglio dire, egoisticamente, che una buona ragione per leggere è semplicemente che qualcun altro, da qualche altra parte, ha creato il fare scritto, la poesis della stampa. Un atto pubblico di creazione ha una pretesa sulla nostra attenzione, proprio come la supplica di un estraneo per strada, e anche se la pretesa risulta essere fasulla, esagerata o irritante. Gli esseri umani esistono in un mondo discorsivo, un mondo di linguaggio, e creare nuove istanze di possibilità discorsive, accordi delle parole condivise che siano nuovi e unici, e forse anche far fare alle parole cose nuove e uniche con la coscienza, è un lavoro duro. Fategli il complimento di leggere.

La gente scrive per i motivi più disparati, con motivazioni miste e talvolta ignobili. Nessuno sano di mente scrive per soldi, nonostante il giudizio del Dr. Johnson, e questo fa di tutti gli scrittori delle teste di legno di un tipo o di un altro. Il denaro a volte può arrivare, per essere sicuri, ma tutti gli scrittori, sia segretamente che con grande fanfara, cercando uno o un milione di lettori, scrivono perché vogliono che qualcuno legga ciò che hanno creato con nient’altro che i loro pensieri e gli umili strumenti del linguaggio ordinario. Scrivere è, in questo senso, allo stesso tempo l’atto più speranzoso e disperato che un umano pensante possa consapevolmente intraprendere. Sembra essere il tentativo di una coscienza di raggiungere un’altra attraverso una curiosa interiorità magica, l’esperienza mondana ma in realtà misteriosa di sentire il suono delle parole di un’altra persona nella propria testa.

Escritto da “Il linguaggio ci parla: Sophie’s Tree and the Paradox of Self”, di Mark Kingwell, in
The Edge of the Precipice: Why Read Literature in the Digital Age?
(McGill-Queen’s University Press, 2013), a cura di Paul Socken, professore emerito, dipartimento di studi francesi, Università di Waterloo.