Lapham’s Quarterly
La malaria quartana, con la sua temuta ricorrenza di brividi e febbre alta ogni quarto giorno, ha reclamato un numero incalcolabile di vite in Italia durante il Medioevo. I suoi segni minacciosi erano così familiari che un poeta italiano del quattordicesimo secolo che cercava di riempire i lettori di una paura da far tremare le ossa, doveva solo evocare l’immagine di un uomo che “in un tremendo attacco di febbre quartana, / così malato che le sue unghie hanno perso ogni colore, / trema tutto alla vista dell’ombra”. Dante si identificava con le vittime della malaria – le cui sofferenze aveva visto con i suoi occhi – per trasmettere il suo spavento mortale di dover volare verso il cerchio inferiore dell’inferno sul dorso di Gerione, un mostro dall’onesto volto umano di fronte a un corpo serpentino con zampe leonine e una coda di scorpione. L’autore di quelle parole ora sperimentava in prima persona i sudori, i brividi e i dolori della malattia debilitante.
Ha contratto la malaria per davvero, ed era una vera e propria condanna a morte. Sebbene i primi cronisti e biografi dicano poco sugli ultimi giorni di Dante, i loro resoconti, integrati dalla documentazione contestuale, permettono una rappresentazione plausibile della sua malattia, morte e sepoltura.
Dante visse gli ultimi due decenni in esilio da Firenze perché era una vittima della politica locale e papale che agitava le città toscane. Le fazioni del suo tempo erano i Guelfi Neri e i Guelfi Bianchi – etichette colorate importate da Pistoia nel 1301 – capeggiati rispettivamente dall’aristocratico Corso Donati e dal banchiere Vieri dei Cerchi. Dante scalò la scala del governo fiorentino come Guelfo Bianco, raggiungendone il gradino più alto quando fu eletto nel Consiglio dei Priori della città, composto da sei membri, per un mandato di due mesi a partire dal 15 giugno 1300. Il suo trionfo non sarebbe potuto arrivare in un momento peggiore. “Tutti i miei guai e tutte le mie disgrazie”, rifletteva in una lettera, “hanno avuto la loro causa e la loro origine nella mia malaugurata elezione al priorato.”
L’opposizione di Dante alla campagna di papa Bonifacio VIII per annettere le terre toscane portò a dei problemi l’anno successivo. Bonifacio inviò il principe francese Carlo di Valois a Firenze apparentemente come un pacificatore, ma in realtà come un occupante militare che permise ai guelfi neri filopapali di rovesciare il governo dei guelfi bianchi. Dante fu uno dei tre fiorentini inviati ad incontrare Bonifacio, che rifiutò categoricamente il loro appello a negoziare. Il poeta era ancora a Roma o sulla via del ritorno a Firenze quando Carlo entrò in città il 1° novembre 1301. Le folle nere guelfe scatenarono presto un’ondata di terrore contro i loro vicini guelfi bianchi. Il magistrato capo Cante de’ Gabrielli emise due proclami nominando Dante tra le persone accusate di aver commesso vari crimini mentre era in carica. Poiché Dante non si presentò per rispondere alle accuse iniziali, il secondo proclama, datato 10 marzo 1302, lo condannò a morte per fuoco nel caso in cui “in qualsiasi momento fosse venuto in potere del comune”. Il poeta non mise mai più piede a Firenze.
Come esule politico, Dante fu escluso da un indulto fiorentino nel 1311, ma un’altra amnistia nel 1315 gli avrebbe permesso di tornare. Non volendo rispettare i termini dell’offerta – ammissione di colpa e pagamento di una multa – Dante fu nuovamente condannato a morte, questa volta per decapitazione piuttosto che per incendio, pena che ora si applicava anche ai suoi figli Pietro e Jacopo. Una disposizione aggiuntiva affermava che chiunque aveva il permesso “di danneggiarli nella proprietà e nella persona, liberamente e impunemente”. Il rifiuto di Dante rifletteva non solo il suo grande orgoglio ma anche migliori condizioni di vita. Ora risiedeva a Verona come ospite del sovrano ghibellino Cangrande della Scala. Avendo tagliato i legami con la sua città natale, si dichiarava “fiorentino per nascita, non per disposizione”. Dante aveva imparato che il pane fuori Firenze “sa di sale”, ma dal 1316 poteva dire che tale pane “non mancherà di certo”.
Il trasferimento a Ravenna sotto il patrocinio di Guido Novello da Polenta nel 1318 – forse già nel 1320 – migliorò ulteriormente la vita della famiglia Alighieri, fornendo una certa stabilità e indipendenza. Il poeta aveva la sua casa a Ravenna, la città in cui trovò le risorse, l’ispirazione e l’ambiente che gli permisero di scrivere i canti finali della Divina Commedia. Non più centro di potere politico ed ecclesiastico, Ravenna conservava un’aura della sua passata grandezza che attraeva Dante in questa fase avanzata della sua vita. Cinque secoli dopo, lo scrittore irlandese Oscar Wilde immaginava Ravenna, una “città di poeti”, come “come Proserpina, con la testa piena di papaveri, / che custodisce le sacre ceneri dei morti”. Le “tombe solitarie della città dove riposano i Grandi del Tempo” ispirano “i cuori a sognare cose sublimi”. La profonda invocazione del passato di Ravenna – ciò che lo studioso dantesco Giuseppe Mazzotta chiama la sua natura “postuma” e la sua “sognante immobilità” – si sposa perfettamente con la visione del poeta medievale dell’aldilà come una conversazione tra i vivi e i morti.
Dante ha anche contribuito al benessere di Ravenna partecipando a negoziati diplomatici, uno dei quali gli ha stroncato la vita. Con Ravenna sull’orlo della guerra con la Repubblica di Venezia, il suo potente vicino sulla costa adriatica settentrionale dell’Italia, Guido Novello inviò Dante in missione diplomatica alla Serenissima, sperando che “l’eloquenza e la reputazione del poeta potessero scongiurare l’imminente rovina” e portare il conflitto a una risoluzione pacifica.
I registri veneziani mostrano che la città si stava effettivamente preparando per le operazioni militari contro Ravenna nell’agosto del 1321, con i negoziati per porre fine alla crisi che iniziarono subito dopo.
Il casus belli era la cattura di navi veneziane da parte di Ravenna e la sua uccisione di un capitano e di diversi membri dell’equipaggio (con altri feriti nell’attacco). In cerca di vendetta per l’ingiustificata aggressione, Venezia chiede a Forlì di entrare al più presto in guerra contro il nemico comune e chiede l’appoggio o almeno la neutralità di Rimini. Cogliendo la gravità di questa minaccia per Ravenna, Guido inviò Dante e altri ambasciatori a Venezia alla fine di agosto.
La via di terra tra Venezia e Ravenna presentava dei rischi propri, soprattutto nel periodo dell’anno in cui Dante viaggiava. Con le prime piogge della stagione che bagnavano le paludi, riarse dopo i caldi mesi estivi, le condizioni erano mature per contrarre la malaria. I fiumi, i canali, le paludi e le lagune della regione l’hanno sempre resa un rifugio fertile per le malattie trasmesse dalle zanzare. Quando Dante tornò a Ravenna all’inizio di settembre, i ricorrenti attacchi di febbre lo avevano talmente indebolito che morì nel giro di pochi giorni.
Secondo la pratica cristiana medievale, un prete avrebbe amministrato gli ultimi riti – confessione, comunione ed estrema unzione – all’uomo morente a casa. Portando olio consacrato e ostie, avrebbe ascoltato l’ultima confessione di Dante, lo avrebbe assolto dai peccati, gli avrebbe somministrato l’ultimo cibo per il passaggio nell’aldilà (viaticum) e avrebbe unto il suo corpo. La vita terrena del poeta terminò “nel mese di settembre dell’anno di Cristo 1321, nel giorno in cui la Chiesa celebra l’esaltazione della santa croce”, cioè il 14 settembre. Gli studiosi datano comunemente la morte di Dante alla notte tra il 13 e il 14 settembre 1321. Giovanni Boccaccio diede al suo illustre antenato un addio propriamente letterario, scrivendo a proposito della sua morte: “Egli rese al suo Creatore il suo spirito affaticato, che non dubito sia stato accolto tra le braccia della sua nobilissima Beatrice, con la quale, al cospetto di Colui che è il sommo Bene, lasciate le miserie di questa vita presente, vive ora con grande gioia in quella vita la cui felicità non ha fine.”
Il lutto in genere portava il cadavere in chiesa per la recita dell’ufficio dei morti e una messa di requiem prima di procedere al cimitero per la sepoltura. Il funerale di Dante era probabilmente conforme a questo modello cristiano tardo medievale, ma con alcune differenze in linea con lo status esaltato del poeta. Piero Giardino, un amico che disse di essere stato al letto di morte di Dante, fu probabilmente anche la fonte di Boccaccio per informazioni sul funerale. Guido Novello da Polenta, che aveva provato “il più grande dolore” per la morte di Dante, mise il suo corpo, “ornato di insegne poetiche, su una bara funebre, e lo fece portare sulle spalle dei suoi più illustri cittadini fino al luogo dei Frati Minori a Ravenna, con tale onore che egli ritenne degno di un tale cadavere.” Dopo la processione, che fu accompagnata da “pubblici lamenti”, Guido fece mettere il corpo di Dante “in una cassa di pietra, nella quale giace ancora”. Poi tornò alla casa del poeta, dove, seguendo l’usanza ravennate, “tenne un ornato e lungo discorso sia per lodare la profonda conoscenza e virtù del defunto, sia per consolare i suoi amici, che aveva lasciato nel più amaro dei dolori.”
Il cronista Giovanni Villani ribadì l’alto tributo reso a Dante alla sua morte, notando che fu sepolto vicino alla chiesa principale “con grande onore, nell’abito di un poeta e di un grande filosofo.” Uno dei primi commentatori di Dante andò molto oltre, opinando nel 1333 che “ricevette il tipo di onori singolari che non si davano dalla morte di Cesare Ottaviano”. Osservando che Dante “giace ancora” nella semplice tomba di pietra diversi decenni dopo la sua morte, Boccaccio riferì che ciò non era inevitabile. Al contrario, Guido Novello aveva promesso – “se il suo patrimonio e la sua vita fossero durati” – di onorare il poeta “con una tomba così eccellente che se mai un altro suo merito lo avesse reso memorabile per quelli a venire, questa tomba lo avrebbe compiuto”. L’umanista fiorentino Giannozzo Manetti descrisse la tomba originale di Dante in termini molto più generosi, definendola “una tomba splendida e imponente costruita con pietre quadrate finemente tagliate”, ma resta il fatto che oltre un secolo dopo la sua morte, le ossa di Dante giacevano nello stesso semplice sarcofago in cui erano state poste nel 1321.
Il tipo di conflitto politico che aveva tormentato Dante in vita fu anche responsabile del fallimento di Guido nel fornire la “tomba eccellente” che aveva detto avrebbe mantenuto viva la memoria del poeta per le generazioni future. Le buone intenzioni del nobile sovrano vennero meno quando, durante un soggiorno a Bologna subito dopo la sepoltura di Dante, i nemici politici (guidati da un cugino) organizzarono un colpo di stato a Ravenna e Guido non fu più in grado di tornare in città. Come se avesse intuito che una struttura fisica degna di contenere le ossa di Dante avrebbe tardato ad arrivare (se mai ci fosse stata), Boccaccio si prese l’incarico di costruire – con le parole, non con la pietra – la magnifica tomba che Guido aveva promesso, un “monumento a Dante”, come uno studioso definisce il lavoro del giovane scrittore come editore, biografo, apologeta e commentatore per conto del suo illustre predecessore. “Non è infatti una tomba materiale”, commenta Boccaccio a proposito del suo omaggio verbale al poeta, “ma è comunque – come doveva essere – un perpetuo conservatore della sua memoria”
Ma se le parole sono pietre da costruzione, Dante è in definitiva il miglior costruttore di tombe. La pietra – anche il marmo – può sembrare un mezzo inconsistente in cui commemorare un uomo la cui monumentale casa dell’aldilà immortala se stesso e i suoi personaggi in versi. Giuseppe Verdi, il famoso compositore di opere liriche, sottolineò questo punto quando gli fu chiesto di contribuire a un fondo per la costruzione di un nuovo mausoleo per Dante negli anni 1890, un progetto che non si concretizzò mai.
“Signore! rispose indignato Verdi, “mettere a posto questa situazione indecorosa, lei dice? Ma quale situazione? Indecorosa perché non ho inviato la mia offerta per il monumento a Dante? Dante ha innalzato da e per se stesso un monumento così grande e così alto che nessuno può raggiungerlo. Non abbassiamolo con manifestazioni che lo mettono sullo stesso piano di tanti altri, anche i più mediocri. A questo nome non oso innalzare inni:
In Italian Hours, una raccolta di astuti commenti su luoghi e monumenti italiani, il romanziere Henry James espresse una simile riverenza per Dante a spese di qualsiasi monumento costruito in suo onore. Sconvolto dalla tomba del poeta a Ravenna, uno spettacolo “tutt’altro che dantesco”, James decise che in questo caso la struttura fisica aveva poca importanza. “Fortunatamente, tra tutti i poeti, è quello che ha meno bisogno di un monumento”, rifletteva il romanziere, “dato che era preminentemente un architetto della dizione e si costruì il suo tempio della fama in versi più solidi di un blocco ciclopico”
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